Qualità
della vita tra economia - politica - cultura
Di Luigi Brembilla
Il principio di "reciprocità" potrebbe diventare un valore di cambiamento nelle politiche economiche e sociali. Non tanto come valore tra due termini e la loro reversibilità, ma come principio di relazioni etiche ed economiche.
Oggi il rapporto tra economia, politica e cultura non si presenta certo in termini
di "reciprocità".
È evidente che "l'economia di mercato" sta condizionando e
determinando politiche, governi e culture nella gestione dei rapporti sociali
e nella distribuzione della ricchezza.
I paesi sviluppati dominano l'economia mondiale a spese del resto del mondo,
ridotto all'obbedienza con gli strumenti della marginalizzazione economica,
dello sfruttamento delle risorse e della destabilizzazione politica. La Banca
Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono strumenti, dei paesi ricchi,
per la gestione dei debiti e delle economie dei paesi poveri.
Ogni tentativo di possibile controllo dei rapporti economici da parte di organismi
internazionali non dà esiti in tal senso. L'obbligo degli stati membri
delle Nazioni Unite ad intraprendere azioni per la cooperazione internazionale,
economica e sociale è chiaramente enunciato nella Carta di San Francisco
(art. 55-56), ma la sua applicazione resta ancora rimessa alle volontà
dei singoli stati. Così pure l'accesso alle "ricchezze naturali".
L'esigenza di tutelare il diritto di tutti gli stati di partecipare allo sfruttamento
di tali risorse, tenendo conto della disparità di sviluppo economico
e della limitata disponibilità di queste risorse, ha portato alla formulazione
dì nuovi principi, come quello di "patrimonio comune dell'umanità".
D'altra parte, è sempre evidente come gli stessi strumenti di sviluppo
tecnologico possono trasformarsi in pericolosi mezzi di distruzione ambientale.
Nuove norme di "diritto" internazionale si stanno sviluppando per
organizzare l'attività degli stati, non più in funzione del soddisfacimento
di interessi reciproci, ma per condurre gli sforzi verso la salvaguardia di
interessi che coinvolgono la comunità internazionale nel suo complesso.
Risulta però ancora difficile pensare a qualcosa in più che a
semplici enunciati. Se la proclamazione di "patrimonio comune dell'umanità"
costituisce un'innovazione considerevole, resta ancora difficile una sua traduzione
in un regime normativo giuridico concreto e generalmente accettato.
Non da meno in materia ambientale il diritto internazionale appare sempre meno
adeguato per un controllo dell'inquinamento, che risulta senza frontiere. Di
fatto ogni tentativo di un controllo locale dell'economia incorre in grossi
fallimenti, considerate le grandi possibilità che essa gode nel trovare
"altrove" sempre più opportunità per il suo sviluppo.
Le opportunità si traducono spesso in ricerca di situazioni ambientali,
sociali e politiche di "sottosviluppo"; non certo per spirito di carità
e di interessi umanitari, ma prevalentemente per godere di privilegi:
- mancanza di legislazioni sociali (contrattazioni e leggi sul mercato del lavoro
e della sicurezza sociale)
- mancanza di legislazioni ambientali (sfruttamento delle risorse naturali e
inquinamento)
- mancanza di democrazia (stati con governi "amici" più che
democratici)
Quindi la mondializzazione del mercato sta avvenendo nella più libera
e spregiudicata assenza di controllo e di democrazia.
Grandi investimenti si spostano da un paese all'altro, da un continente all'altro
senza il minimo controllo. La dove sono sorti strumenti di controllo, contrattazioni
e legislazioni di tutela sociale sono sorti problemi di sicurezza economica,
di disoccupazione, di esclusione sociale e di povertà; arrivando al punto
che il controllo democratico della società sia in contrapposizione con
l'economia di mercato.
Se nel mondo ricco e sviluppato il "capitalismo" sta producendo esclusione,
nelle società povere mette a rischio lo sviluppo della democrazia. Sempre
meno ricchi (sempre più ricchi, controllano le sorti economiche di miliardi
di persone povere, (sempre più povere )".
Sicuramente un controllo democratico delle relazioni economiche metterebbe in
crisi tante cose, tante sicurezze, tanti diritti come il godimento dell'80%
della ricchezza da parte del 23% della popolazione mondiale.
Non a caso l'Assemblea Generale dell'ONU ha solo poteri consultivi, mentre le
decisioni importanti vengono stabilite nel consiglio di sicurezza, in cui hanno
potere di veto le cinque nazioni dominanti: Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna,
Francia, Cina. Certamente il potere di veto così espresso, non può
considerarsi un valore etico di riferimento in una democrazia compiuta. Così
intesa la democrazia non è più governo del popolo, come il suo
valore etimologico esprime, ma l'analogia si riduce alla comune volontà
delle classi dominanti di tutto il mondo di considerarsi, non come semplici
minoranze, ed espressioni di minoranze, ma come mandanti della volontà
della maggioranza o della totalità dei cittadini. Interpretazione ideologica,
che le disuguaglianze tra i popoli e classi, che i rapporti di forze tra stati
la rendono alquanto diversa dalla realtà enunciata.
Se veramente negli organismi di governo nazionali ed internazionali fossero
rappresentate le varie realtà ed espressioni sociali, la povertà
avrebbe la maggioranza assoluta.
Purtroppo la politica è incapace di sviluppare nuove forme di convivenza
civile, democratica e di partecipazione; si adagia nella sistematica azione
di "riparazione" dei mali sociali che l'economia di mercato produce.
Pertanto 1,5 miliardi di persone nel mondo hanno oggi una sola prospettiva di
vita: morire di fame.
Il declino della politica rispetto all'economia si nota nell'ampliarsi della
dimensione dello scambio mercantile nella vita sociale tra soggetti di "diritto"
e "nuove presenze", nella trasformazione dell'economia di mercato
in ideologia del "capitalismo natura". Quell'ideologia che pensa al
capitalismo come diritto naturale e che le libertà siano direttamente
riconducibili agli automatismi del mercato e che impoverimenti di massa sono
solo incidenti di percorso.
Oggi la società occidentale, dopo conflitti di classe e sociali, nei
paesi ricchi produce su larga scala effetti i spettacolari nei confronti della
vita dell'uomo:
- prolungamento della sua durata ed eliminazione della mortalità infantile
- possibilità di mangiare secondo bisogno e piacere
- estensione ed efficacia dei sistemi di cura contro le malattie, ecc.
Ma proprio questo modello produce altrettante nefandezze nel depauperamento
di risorse energetiche, ambientali e ricchezze naturali, oltre a creare enormi
squilibri tra ricchezza e povertà. Ma ciò non basta, perché
i limiti di tale "sviluppo" sono determinati dai limiti di sfruttamento
delle risorse terrestri, dai limiti degli equilibri ecologici e dalla scarsa
possibilità che metà della popolazione mondiale stia ancora per
lungo tempo a guardare.
In questo modello liberista l'iniziativa privata, l'imprenditorialità,
l'investimento delle capacità umane sono messe a disposizione più
del "benessere", difficilmente del "bene comune". A muovere
i desideri e il volere sono il livello di vita, il possesso dei beni che permettono
di provare le molte voglie del consumismo. Il vivere viene ridotto al produrre
e al consumare.
Mancano o troppo deboli in questa prospettiva di sviluppo i valori di "beni
condivisibili", di "diritto per tutti", di "accoglienza
e cura dell'altro"; di "incontro e accompagnamento", di "solidarietà",
di "reciprocità"; di "responsabilità"; di
"carità e comunione", di "comunità" ecc. La
comunità non é determinata da confini geografici o amministrativi,
ma da quanto é comune a quelle e in quelle persone. Comunione di valori,
di intenti e di relazioni, dove la pratica "democratica" e l'agire
politico chiedono responsabilità nelle decisioni delle persone singole
nell'interesse comune.
Agire in democrazia é capire la realtà, condividerne i valori,
giudicare criticamente ed elaborare proposte e strategie di cambiamento. Allora
il cooperare diventa attenzione all'incontro, alla cura del contesto, della
relazione e dello spazio dei valori condivisi. La cooperazione, l'economia civile
o terzo settore, l'economia di comunione (vedi precedenti Caritas Insieme) sono
ancora esperienza limitate per produrre cambiamento; sicuramente stanno producendo
stimoli di "rinnovamento". Il principio di "reciprocità"
potrebbe diventare un valore di cambiamento nelle politiche economiche e sociali.
Non tanto come valore tra due termini e la loro reversibilità, ma come
principio di relazioni etiche ed economiche (L'antropologia culturale utilizza
il principio di reciprocità proprio per poter spiegare i valori insiti
nello "scambio" nelle società primitive. Questa modalità
specifica di scambio non assume forma di "transazione" ma quella di
"doni reciproci"; non é riducibile ad un fenomeno meramente
economico ma assume le caratteristiche di un "fatto sociale totale"
in cui sono presenti significati sociali, economici, religiosi, giuridici e
morali).
Siamo di fronte ad un modello teso ad integrare le diverse "realtà
economiche" presenti nella nostra società. Economia di mercato,
economia di stato ed economia civile non più in concorrenza o in subalternità
come lo sono oggi, ma in un nuovo modello dove "politiche socio economiche
di reciprocità" sapranno rispondere alle tre specifiche peculiarità
della produzione di ricchezza, della pianificazione degli interventi e della
relazione fra i diversi bisogni delle persone: quindi indispensabile diventerà
la formulazione di "nuove condizioni e costituzioni" per il convivere
tra le persone che rendano possibile e utile il produrre, attento il costruire,
sollecito il curare e ricco l'educare e il comunicare.
Se veramente negli organismi di governo nazionali ed internazionali fossero
rappresentate le varie realtà ed espressioni sociali, la povertà
avrebbe la maggioranza assoluta.
Se nel mondo ricco e sviluppato il "capitalismo" sta producendo esclusione,
nelle società povere mette a rischio lo sviluppo della democrazia.